C’è una crepa in ogni cosa è da lì che entra la luce

Animata da uno spirito nuovo, diverso e più vitale di quello con cui aveva iniziato la giornata, subito dopo essere andata dal parrucchiere, Vivi aveva comunicato le sue decisioni al marito.

“Come facciamo ad affrontare le ingenti spese per riprendere i tetti dell’edificio?” – le aveva chiesto lui, per telefono.
“È molto semplice” – rispose lei, dall’altro capo della cornetta – “Non compriamo niente di nuovo: solo il minimo indispensabile per la manodopera e i lavori strutturali di messa in sicurezza del Casale.

Tutto quello che ci serve per rendere nuova luce, alla struttura, è già in nostro possesso. Non prenderemo nuovi materiali, useremo quelli che ci sono già e questo per due motivi diversi…”
“Il movente economico, in primis…” – la precedette lui, sapendo che la moglie era una donna pratica e tempestiva.
“Sì, e storico - affettivo, il secondo…” – aggiunse lei.
“Affettivo… addirittura!” – incalzò il marito, da Palermo, mal celando un certo stupore – “Non dirmi che ti senti già così legata a questo luogo!”
“Dimmi una cosa” – continuò Vivi, senza ribattere – “se tu volessi tornare giovane e ti rivolgessi a un chirurgo plastico affinché questo ti togliesse le rughe dal viso, non pretenderesti che venissero rispettati i tratti del tuo volto?”
“Beh sì, credo di sì…”
“Ecco, è così anche per questo Casale. Non voglio che, alla fine della ricostruzione, somigli a qualcosa che non è o non è mai stato. Voglio che sia lui, per come altri, prima di noi, lo hanno messo al mondo…”
“Vivi, ne parli come fosse un figlio. È solo un edificio da ristrutturare!” – chiuse lui.
“È un edificio che mi ha insegnato a vedermi per quella che sono. Il minimo che possa fare è restituirgli l’antica dignità. Voglio viverlo nel presente, sia chiaro, ma rispettandone il passato…” – aggiunse lei.

Nei mesi che seguirono a questa telefonata i lavori furono incessanti e carichi di sentimenti altalenanti: dalla gioia si passava alla fatica, dall’entusiasmo allo sconforto, dalla convinzione profonda di aver fatto la cosa giusta, a quella sottile di aver procrastinato l’errore iniziale.

Anche individuare la squadra operativa, che avrebbe iniziato l’opera, non fu semplice.

Bisognava trovare dei professionisti che sapessero unire alle doti pratiche e tecniche anche la conoscenza del territorio, della storia e dei luoghi in cui Vivi e il marito si muovevano ancora a tentoni.
Era necessario che la gente di Doglio imparasse a fidarsi di loro e, perché ciò accadesse dovevano entrare, lentamente, nel tessuto sociale del piccolo paesino.

Dopo settimane di ricerche, talvolta estenuanti, fu in un giorno d’estate che, dai Castelli Romani, giunsero al Podere Le Corone sei operai specializzati.

A vederli, sembravano più usciti da un vecchio film italiano del secondo dopoguerra che da un cantiere aperto: formavano, infatti, una squadra ben assortita e variegata.
Una squadra simile a quella de “I Soliti ignoti” ma con intenti, propositi e finalità specularmente opposte.
Diversi per età, forma fisica e tratti somatici questi sei uomini furono i primi chirurghi che misero mano alla struttura.
Furono le prime dodici mani che sperimentarono la bellezza di un’overture lunga sei anni.

Certo, integrarsi, capirsi e studiare una nuova realtà diversa da quella a cui si è abituati, non è sempre un gioco da ragazzi e quando la squadra intuì che il referente pratico e decisionale di tutti i lavori, inerenti al loro ingaggio, sarebbe stata una donna, ebbero un momento di smarrimento: insomma, diciamocelo pure, la manovalanza è questione per soli uomini.

Pertanto, la diffidenza era stata la base naturale su cui si era innestato questo rapporto e, spesso, quella diffidenza reggeva le fila dei dialoghi che si tenevano tra la squadra e la “Signora de Le Corone”.
Era una diffidenza sottile, impercettibile, acuta: un sentimento di attrito che sai che c’è, che è lì, anche se non ha motivi per esplodere o deflagrare.

Eppure lei, Vivi, era lì. Non si spostava mai né dall’area antistante all’edificio né dall’impalcatura che gli operai stavano costruendo e, mostrava una dedizione al progetto, alle sue idee e alla sua visione che tutti le ammiravano.
Aveva sviluppato, inoltre, uno spirito di resistenza e malleabilità rare.
Talvolta, non si riconosceva nemmeno lei.
Ma se è vero che il Podere e la “sua” Signora avevano imparato a comunicare seguendo il flusso dell’energia, della terra e dei segni, ben presto, Vivi avrebbe capito perché lei e il Casale stavano crescendo, cambiando e acquistando nuova luce, insieme.

Agriturismo Podere le Corone
Casteldoglio S.R.L.
Frazione Doglio
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