È l’amore che rende i tuoi silenzi, casa mia
Il casale diroccato aveva infissi, in parte divelti.
Erano infissi divorati dal vento, dalle tarme, dai temporali e corrosi dal sole e dalla neve.
Davano all’edificio un’immagine tetra e solitaria.
I tre si trovarono dinnanzi all’enorme struttura pervasi da grandi sentimenti di scoramento.
Tuttavia, un po’ per rendersi conto della condizione in cui versavano gli spazi interni, un po’ per sottrarsi all’acqua che batteva incessantemente, decisero di varcare la soglia della casa padronale .
Una volta aperto l’uscio, ebbero accesso a grande ambiente, con delle crepe sul soffitto dalle quali s’infiltrava la pioggia, e delle mura distrutte, dalle quali si dipanavano umidità e piante infestanti.
Non vi era più traccia di ciò che restava della pavimentazione originale.
L’odore di muffa e di rinchiuso si fondeva con quello della campagna e della terra bagnata.
Tutto attorno erano erbacce spontanee, topi, lucertole, pietre dissodate, detriti sparsi e mattonelle scolorite.
Vivi e il marito, chiusero l’uscio dietro di loro e si scambiarono uno sguardo eloquente.
Era uno sguardo sconsolato che tradiva le aspettative e i desideri di tutt’e due.
Voleva dire: “No, non è questo quello che stiamo cercando …”
Un velo di tristezza calò su entrambi.
Ormai, era da quasi un anno che giravano alla ricerca di un luogo all’altezza delle loro esigenze e, quando il loro amico li aveva contattati dicendo che c’era un podere, in Umbria, che dovevano assolutamente visionare, avevano preso il primo volo disponibile per Roma e avevano raggiunto Todi, animati di belle speranze.
Di certo, non si aspettavano che quel viaggio si sarebbe concretizzato nella visione di un vecchio e fatiscente casolare, circondato da ettari di terra incolta.
Una volta dentro, Vivi cominciò a guardarsi attorno e quello che vedeva rafforzò sempre di più la sua convinzione: lei era donna di mare, fatta per navigare e immergersi nell’acqua. Era donna di sole, fatta per godere solo delle belle giornate. Non era venuta al mondo né per afferrare la terra con le mani, né per restare senza un tetto sulla testa mentre il cielo si scatenava con la sua potenza.
Stava riflettendo su questo quando il marito si addentrò tra i resti dell’edificio con l’amico, per dare un’occhiata a ciò che era rimasto delle altre stanze e se, effettivamente, c’erano margini di operabilità nel recupero della struttura.
“Vieni anche tu?” – le chiesero, ma lei, paralizzata dal freddo pungente, disse che sarebbe rimasta all’interno della prima stanza del casale, là dove, almeno anticamente, doveva sorgere la coorte padronale.
“Vi aspetto qui!” – rispose – “Fate presto”.
Così i due varcarono la soglia della prima stanza e vennero fagocitati dal buio.
Vivi, rimase in attesa dentro quell’enorme stanza sospesa tra passato e presente, dove nessun rumore trovava spazio, ma cominciò a mancarle l’aria.
Fu un po’ per questo ma anche perché il cielo, finalmente, dava tregua che, dopo dieci minuti, decise di uscire dal casale e di aspettare gli altri due, appoggiata a una pietra.
Si avvicinò, dunque, a un enorme masso coperto di erbacce infestanti. Era un masso bagnato ma lei, ciò nonostante, vi si adagiò, per far riposare le gambe e si mise guardare i vecchi ulivi.
Senza nemmeno accorgersene, cominciò a resettare il respiro e ad armonizzarlo con la natura: era come se l’aria che immetteva nei polmoni le stesse restituendo, oltre all’ossigeno, anche pace, serenità, fiducia.
Fu proprio mentre osservava l’orizzonte che Vivi si accorse di un fatto strano e oltremodo insolito.
Nonostante il gelo e nonostante l’inverno, la pietra, sulla quale si era seduta, emanava calore.
Non era un calore normale.
No.
Era un calore che dalle mani le arrivava dritto al cuore.
Ebbe la sensazione che quella pietra le stesse parlando.
Sprigionando tutta l’energia di cui era capace, quel masso la stava implorando di prendersi cura di lui, di quel luogo, di quel caseggiato, della natura che si manifestava al suo sguardo e, prepotente, “divorava” il Podere immergendolo nel verde e negli ulivi centenari.
Era come se quella pietra le stesse raccontando una storia che partiva da molto tempo prima e arrivava fino a quel giorno uggioso e malinconico. Le stava raccontando che, nonostante il grigio del cielo e la forma disastrata in cui si trovava, quel Podere e quel casale erano vivi. Sepolti, ma vivi, ed erano stati testimoni di mille vite che si intrecciavano, di mille mani che diventavano lavoro e amore per la terra e di tanti piedi che si trasformavano in forza e direzione.
Gli raccontò dei contadini che lo avevano edificato, abitato, vissuto; delle storie di cui era stato testimone; degli sguardi che, sotto i suoi ulivi centenari si erano intrecciati come fronde degli alberi; delle dichiarazioni d’amore che, al tramonto, i villani si scambiavano tra un bacio fugace e l’altro.
Gli raccontò del senso del lavoro e della genuinità.
Le fece sentire il rumore dei passi veloci dei bambini e la loro voce.
La proiettò dentro un mondo fatto di cose semplici e buone: un mondo che sprigionava, tra le sue stanze, enorme energia positiva.
Gli raccontò che era stato un Podere rispettabile, gli assicurò che poteva ancora esserlo.
Aveva solo bisogno della cosa di cui necessitano anche gli umani quando devono ricostruirsi dopo un fallimento: una buona dose di fiducia e qualcuno che creda in loro.
Disse tutto questo a Vivi. Glielo disse in silenzio, senza fare rumore.
Ma andando a sprigionare un calore così profondo e vero che Vivi, alzatasi d’istinto, non fu più la stessa di quando si era seduta.
Ebbe la certezza inspiegabile che c’era un motivo se quel casolare li aveva attratti a sé.
Forse, qualcuno doveva riprendere il filo di una storia vecchia 300 anni, là dove questo era stato interrotto.
Forse quel podere aveva, ancora, delle vite da salvare.
Forse c’era un mistero, dietro il destino che l’aveva portata lì. Un mistero che aspettava lei per venire alla luce.
Doveva dirlo al marito: Il Podere Le Corone li aspettava da sempre.